Io sono il mio dio
Nelle correnti filosofiche che ci piace definire, forse un po' impropriamente, di Mano Sinistra - Satanismo e Luciferismo in primis - uno dei concetti fondamentali è quello di auto-deificazione, il percorso che dovrebbe portare il praticante a diventare dio di sé stesso. Ma cosa significa realmente la frase, così facile da pronunciare e così difficile da realizzare, "Io sono (o voglio essere) il mio dio"?
L'interpretazione semplicistica che purtroppo molti, sia tra i praticanti che tra i detrattori e i semplici curiosi, ne danno è: "io sono la persona più importante per me".
Questo è anche vero - anzi deve esserlo - ma non è ciò che intendiamo veramente quando parliamo di auto-deificazione.
Io devo diventare il mio stesso dio, perché soltanto così potrò realizzarmi davvero. Soltanto così potrò vivere la mia vita in modo pieno e soddisfacente. Solo così imparerò a relazionarmi in maniera costruttiva con il mondo, sapendo che ne costituisco una parte piccola, sì, ma non nulla e non insignificante, anzi determinante: ricordate il discorso della farfalla che batte le ali in Brasile generando un tornado in Texas?
La premessa indispensabile all'auto-deificazione è l'auto-individuazione, l'atto che ci permette di dire “io mi (ri)conosco” come individuo, traslando il valore dall' Ente (assoluto ed immutabile) all' Essente che esiste adesso, in un punto preciso del tempo e dello spazio, un aggregato di significato nel qui-ed-ora, che dà da solo e per sé solo un senso alla propria esistenza... esistendo.
Dio è morto, viva Dio!
Il percorso storico che ci ha portati nel secolo ormai trascorso ad esaltare l’individuo nella sua unicità, in contrasto con la cultura della massificazione e dell'annullamento del'interiorità dell'uomo per trasformarlo in mero strumento/oggetto che è sempre stata sostenuta dalle istituzioni dispotiche, il cui maggior e più longevo esempio lo abbiamo ancora oggi sulla porta di casa: la Chiesa cristiana nelle sue forme più popolari e deteriori - questo percorso, dicevamo, parte da lontano, da quell'amore per la scienza che ha sempre animato gli spiriti liberi, ma che a partire dalla curiosità degli umanisti del Cinque-Seicento, e poi con la piena esaltazione della Ragione nel Secolo dei Lumi (il Settecento), ha preso stabilmente dimora nei cervelli e cuori degli uomini, almeno quelli del mondo occidentale.
È la scienza moderna infatti, che più di ogni altro prodotto della mente umana riesce a minare seriamente le fondamenta della teologia, rendendo inutile il postulato della necessità di un dio onnicreatore e pantocreatore, rendendo indagabile e comprensibile la realtà nei suoi segreti più intimi, e ponendo le basi razionali e scientifiche per la costruzione di un'etica (anzi di etiche, al plurale) laiche, ragionevoli e comprensibili con i soli strumenti, a tutti accessibili, della logica e dell'indagine scientifica.
Non ci dilunghiamo qui sulla nascita e l'evoluzione nel Novecento di quelle scienze allora del tutto nuove che indagano la natura umana come la psicologia, l'etologia e l'antropologia. Troverete facilmente nel web tutto il materiale che vi potrà servire per approfondire questi argomenti.
Vogliamo piuttosto focalizzarci sul fondamentale passaggio concettuale tra una filosofia, quella cristiana-monoteista, per la quale tutto discende da un Dio unico, perfetto ed ineffabile, e tutto sottostà al suo totale e imperscrutabile arbitrio - giacché Egli è ovunque presente sempre in azione, e al contempo è fuori dal tempo, per cui il "libero arbitrio" concesso all'uomo non è che una illusione, vera solo dal punto di vista della finitezza umana - ad una filosofia del tutto umanista, che vede cioè nell'Uomo, dapprima in quanto vertice della creazione (umanesimo), dappoi in quanto vertice dell'evoluzione naturale (darwinismo), il vero ed unico centro del mondo (e dell’indagine filosofica stessa), attorno a cui tutto ruota, non tanto perché a ciò destinato da Dio (questo concetto mostra presto la sua fallacia logica e viene prima o poi abbandonato da tutti i pensatori non costretti a piegare le loro facoltà intellettive alla cieca “fede”) ma perché è questo il nostro peculiare ed imprescindibile punto di vista sul mondo.
L’antropocentrismo moderno è dunque conseguenza del nuovo relativismo filosofico che si sviluppa pienamente nel Novecento con l'ausilio degli strumenti delle scienze che indagano da una parte, con la fisica atomica e subatomica, l'essenza ultima del mondo, per scoprire che poi un'essenza ultima non c'è, che "tutto è relazione" ed anche le relazioni tra eventi sono essenzialmente relative - mi si perdoni il gioco di parole - e dall'altra parte indagano l'essenza ultima dell'uomo, per scoprire che l'interiorità di ogni individuo, lungi dall'essere costituita da un nucleo indivisibile, increato ed eterno (l’anima?) è del tutto determinata in parte dalla genetica, in parte dall'esperienza e in parte dal mero caso.
Non stupisce dunque che il crollo delle certezze filosofiche, religiose e morali che avevano retto e guidato gli uomini della civiltà occidentale per tanti secoli, abbia generato una profonda e insanabile crisi, il cui massimo profeta (tale è almeno con il senno di poi con cui oggi guardiamo a questa parte della storia della filosofia, giacché al suo tempo non trovò tutta questa gran fama mondiale, ma si sa, è così per tutti i profeti, che non vengono mai compresi pienamente in vita, ma soltanto a posteriori) è da noi riconosciuto in Nietzsche, che nel suo fondamentale La Gaia Scienza del 1882 faceva proclamare al suo alter-ego, l’uomo folle: "Dove se n’è andato Dio? [...] Siamo stati noi a ucciderlo! […] Dio è morto! Resta morto! E noi lo abbiamo ucciso!" intendendo così affermare che tutti i valori assoluti e l'intera metafisica erano miseramente crollati, collassati sotto il peso dell’inesorabile presa di coscienza della effettiva nullità del cosmo - e dell’uomo - svuotato di senso dal progredire delle conoscenze.
E poco dopo, nel 1885, in Così parlò Zarathustra egli per tramite dell’antico profeta preconizzava la venuta di una versione nuova, "evoluta" dell'uomo stesso, che saprà ricostruire se stesso e il proprio mondo: l'Übermensch (Oltreuomo). In esso varie ideologie hanno visto di volta in volta un goloso mito da fare proprio, dal Nazismo che ne fece il fantoccio della presunta superiorità della fantomatica "razza ariana", ai Transumanisti che lo hanno trasformato in un inquietante ibrido uomo-macchina che nel tentativo di "potenziarsi" rischia di diventare tutto tranne che "qualcosa di meglio" dell'uomo stesso, come tanta buona fantascienza prevede e ammonisce.
E invece no. L'Oltreuomo di Nietzsche - e qui sposiamo la traduzione "oltre-uomo" anziché "super-uomo" perché appunto non di superiorità si tratta, ma di andare oltre i limiti della conoscenza della natura umana e della civiltà occidentale propri del tempo in cui viveva lo stesso Nietzsche. L'oltreuomo nicciano deve - vuole - abbandonare ogni fardello moralistico e ogni sovrastruttura culturale che ne limita l'evoluzione e la piena realizzazione come individuo e come vero artefice della propria esistenza.
D'altra parte, egli afferma in Così Parlò Zarathustra: "se esistessero gli déi, come potrei sopportare di non essere un dio io stesso?"
Il messaggio di Nietzsche è chiaro e inequivocabile: dobbiamo passare da un'etica dello schiavo, materia grezza che si confonde nella massa ignorante, ad un'etica dell'individuo libero, che cerca e trova il proprio valore ed i propri riferimenti etici soltanto in se stesso. È questa, precisamente, la volontà di potenza: non brama di potere, come equivoca chi non conosce il filosofo, ma ferma volontà di prendere saldamente in mano le redini della propria esistenza, perché "l'esistenza non è sottoposta alla giurisdizione della morale": la morale è infatti un costrutto a posteriori, è apparenza, illusione di comodo: in realtà "tutta la vita è necessariamente ingiusta e illogica". Sono dunque io stesso, diventando Oltreuomo, che devo costruire il senso della mia propria vita.
La missione auto-affidatasi di Nietzsche, per cui egli stesso si autodefinì nichilista cioè annichilatore di ogni certezza umana, non poteva non sortire - seppur nel giro di qualche decennio - i suoi tanto micidiali quanto fecondi effetti, perché dalle ceneri della vecchia e spocchiosa mentalità dei secoli passati — che aveva trovato il suo culmine, e quindi l’inzio della sua caduta, nell’idealismo di Hegel, seguìto dalle sue conseguenze via via più estreme tra cui il positivismo scientista di Comte e il materialismo antropologico di Feuerbach, che non potevano non finire col scontrarsi con la complessità della realtà — sorse, come Nera Fenice, un nuovo modo di vedere il ruolo dell'uomo nel mondo: l'esistenzialismo. Tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta del Novecento la crisi dei valori occidentali portò infatti ad un ripensamento del concetto di natura umana. Crollata ogni certezza di origine divina, che poteva dare autorevolezza all'uomo medievale sul creato, e crollata anche ogni certezza sulla reale esistenza dell'Ente come verità/realtà assoluta da prendere a riferimento, non restava all'uomo occidentale altro riferimento che... se stesso.
Partendo dunque da Kierkegaard che proprio dal riconoscimento della natura precaria e finita dell'uomo traeva il valore specifico dell'individuo, prezioso proprio perché unico, e passando per il fondamentale lavoro di Heidegger che stabilì (suo malgrado) l'innegabile verità relativistica che "Essere" (Sein) è e non può essere altro che "Esserci" (Da-Sein, "esser lì") non potendo prescindere dunque dall'individuazione, perveniamo alla conclusione che Sartre ha illustrato così bene nei suoi lavori accademici e letterari, e cioè che ogni individuo è libero e quindi è del tutto responsabile delle sue scelte. Così egli sintetizza il concetto nel suo saggio L'esistenzialismo è un umanismo: "L'Uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa."
Sartre non è del tutto ateo: non riesce ancora a concepire l'idea che qualcosa possa creare se stessa dal nulla — il concetto di fenomeno emergente non era ancora stato elaborato, per comprenderlo abbiamo dovuto aspettare l'evoluzione della matematica della complessità e della fisica dei sistemi dinamici non-lineari, sviluppate a partire dagli anni Ottanta — ma è ateo "di fatto" in quanto il suo concetto di Dio è quello di un "dio assente", che proprio in quanto assolutamente infinito è anche assolutamente altro, assolutamente non-presente (banalmente: se fosse presente "qui" sarebbe comunque assente "altrove", il che minerebbe la sua “perfezione”). Di conseguenza l'uomo, rimasto solo e senza guida, deve sostituirsi a Dio nel farsi artefice del proprio destino.
Sartre partiva da una visione prettamente pessimistica della realtà, magistralmente descritta nel suo romanzo del 1938 La Nausea, per fare un lavoro di demolizione e ricostruzione del reale, non più illusione di assoluto ma realistico relativismo, come d'altra parte era già stato spiegato in termini più squisitamente filosofici un secolo prima da Schopenhauer in Il mondo come volontà e rappresentazione. Una curiosità: in quello stesso anno, il 1818, il nostro Giacomo Leopardi, che aveva già fatto proprie queste idee, le mise in forma poetica e produsse quel capolavoro della letteratura italiana che è la sua poesia più celebre ed anche, forse, la meno compresa: L'Infinito.
Nulla di nuovo, dunque, ma corsi e ricorsi della storia: non dimentichiamoci degli avvenimenti internazionali che in quegli anni - il crollo dell'illusione napoleonica all'inizio dell'Ottocento e il collasso delle potenze europee alle soglie del Novecento - avevano squassato l'Europa e l’intero mondo occidentale, sgretolando di fatto le certezze fondamentali della nostra civiltà. Non sembra strano dunque che anche a livello culturale si sia generato un profondo e pervasivo pessimismo, e ugualmente non deve risultarci strano che a questo pessimismo le persone abbiano reagito cercando nuovi valori, non più nell'illusione di assoluto che crollando ha lasciato un assoluto vuoto, ma nella vita vera, tangibile, che proprio in quanto relativa e individuata dà anche spazio alla possibilità di azione.
Auto-individuazione
Se non possiamo più appoggiarci ad una autorità divina fuori di noi, quindi, come possiamo trovare un nuovo "centro" da cui far partire, come novelli Cartesii, la ricostruzione dello spirito umano? E soprattutto, dove lo troviamo, dato che è stato ampiamente dimostrato da scienziati e filosofi che l'Assoluto non solo non esiste, ma che non può esistere, e che ogni sistema filosofico che presupponga un assoluto da cui partire cade necessariamente in contraddizione?
La risposta ci arriva da quella nuova scienza che compare nel Novecento e che riprende l'antica questione dell'indagine interiore, ma si impone di farlo con gli strumenti dell'indagine scientifica moderna: la psicologia, che a partire dalle pionieristiche indagini di Freud e poi di Jung, ha sancito l'interdipendenza della psiche individuale con il mondo esterno, l'alterità. Il processo psicologico di individuazione, il "farsi sé" di Jung, ha infatti come premessa la scoperta e la conoscenza dell'altro-da-sé, e dunque presuppone l'esistenza della relazione con l'altro, ciò che è "fuori da me", e necessita quindi di un atto di apertura al mondo.
Per chi ha visto La Città Incantata di Miyazaki: ricordate Bō, il gigantesco neonato? La madre non lo aveva mai lasciato uscire dalla sua stanza, impedendogli di diventare adulto, per cui egli è cresciuto solo in dimensioni ma non è maturato, non è diventato una persona, non si è individuato, e avrà finalmente modo di farlo soltanto quando la protagonista del film riuscirà a portarlo fuori dal suo nido. Aprirci all'altro-da-noi ci toglie dalla comoda posizione di "perfetta incoscienza" in cui nasciamo, scaraventandoci di peso nel flusso del divenire del mondo.
Quanti Miti della Caduta conosciamo, a partire da quello narrato nel Genesi?
Il contatto con il mondo esterno dunque ci arricchisce e insieme ci modella, consentendoci di ri-conoscerci cioè di conoscere noi stessi attraverso l’altro. E' in questo senso che si può dire che "noi siamo le nostre relazioni". C'è tuttavia un grande rischio in questo processo: nel rincorrere il mondo rischiamo infatti di perderci, di perdere di vista noi stessi, dimenticarci chi siamo - o meglio chi vogliamo essere, e soprattutto di dimenticarci che noi siamo: che c'è in noi un "nucleo", un "core", un "kokoro" che permane e che non dobbiamo mai perdere di vista, che deve essere il nostro vero e unico “riferimento spirituale” al di là di ogni mutamento contingente.
Non si tratta, attenzione, di un monolite liscio e impenetrabile come quello di Clarke: è anzi qualcosa di tanto prezioso quanto piccolo e delicato, che però, per quanto possiamo scalfirlo, deformarlo, romperlo, anche quando ridotto in schegge continuerà a rimandarci - seppur debole e distorta - la nostra vera immagine, così come come fa una lastra olografica. Questo nucleo è, esattamente, ciò che la psicologia chiama "IO", la più importante delle componenti della psiche umana individuate da Freud.
Dentro di noi esistono infatti tre principali "funzioni" che interagiscono in modo dinamico tra di loro, per dare come risultante ciò che siamo e come ci comportiamo: l'Es è la parte impersonale, istintiva della psiche, le pulsioni primitive, che impariamo a contenere ma non potremo mai soffocare; il Super-ego, cioè tutte le sovrastrutture interiorizzate fin dalla più tenera età, composte dalle regole che ci vengono infuse dai nostri caregiver e dalla società in cui viviamo; e l'Ego, la parte consapevole, che con lo strumento della razionalizzazione cerca sempre di mediare tra le altre due componenti e così facendo costruisce la propria immagine di sé.
Poiché l'Es non ci caratterizza come individui, ma soltanto come membri della specie umana, con cui condividiamo gli istinti ed i bisogni primari, e poiché il Superego non viene da noi, ma ha origine totalmente esterna, derivando da imposizioni e costituendo in pratica solo una serie di paletti che vengono piantati intorno all'Es per contenerlo, capiamo che è l'Ego, unico costituente auto-consapevole della nostra psiche, a potersi definire propriamente “Io”: esso È nel senso più proprio del termine, cioè non costituisce un Ente statico ed inerte, ma un insieme di funzioni “vive”, dinamiche, che nello sforzo di mediare tra Es e Superego si attivano e si auto-definiscono: la Mente.
Per chi ha qualche dimestichezza con la matematica della complessità e la geometria frattale, non sarà difficile accostare questo concetto psicologico di Io-Mente con quello di struttura emergente. Per chi ha poca dimestichezza con l'argomento, basterà una ricerca sul web con le keywords "teoria del caos", "frattale" e "comportamento emergente" per farsi un'idea di ciò di cui stiamo parlando.
Questa proprietà che la nostra mente ha di modellare se stessa ci consente di realizzare ciò che Nietzsche profetizzava: farci dèi. Nel momento infatti in cui impariamo non solo a lasciare la nostra impronta nel mondo - ciò che in fondo qualsiasi essere vivente fa - ma anche a cambiare consapevolmente noi stessi, davvero acquisiamo "la conoscenza del bene e del male", ciò che in ambito religioso viene chiamato coscienza. Saper discernere, fare delle scelte, significa infatti modificare noi stessi e il nostro futuro. E la responsabilità delle nostre scelte, "nel bene e nel male", ricade interamente su di noi.
Auto-deificazione
Ecco dunque in cosa consiste realmente il concetto di auto-deificazione che viene riassunto nel motto: "Io sono il mio (solo) Dio": significa che io ed io soltanto sono unico autore della mia vita e solo responsabile di me stesso, delle conseguenze delle mie azioni, dei miei successi e dei miei fallimenti.
Per realizzare in pratica questo processo di auto-deificazione, i percorsi satanici e luciferini di sviluppo del sé - chiamati propriamente Magia - procedono in modi spesso diversi nei dettagli, ma che si possono di massima ricondurre tutti alle medesime fasi, la prima delle quali è riconoscere la Bestia che in noi.
L'animale selvaggio, l'Es, gli istinti primordiali, le pulsioni vitali, sono dentro di noi perché noi siamo animali, spesso spaventati, e questo è tanto innegabile quanto inevitabile. Non possiamo uccidere la bestia, uccideremmo la vita in noi stessi; non possiamo incatenarla e imbavagliarla, lobotomizzeremmo il nostro spirito. Quello che possiamo fare, però, è placarla, addomesticarla, farcela amica. La nostra mente razionale - l'Io - deve imparare a parlare con l'Es. Deve imparare ad amarlo.
Dobbiamo amare l'Abisso che è dentro noi, entrarvi con reverenza ed abbellirlo con i preziosi ornamenti della ragione e del sentimento, così come la luce del sole ama l'oscurità di una cattedrale, la penetra dolcemente attraverso le sue vetrate colorate e gioca con le sue ombre, illuminandone con delicatezza i recessi e svelandone l'intima, complessa e delicata bellezza.
La Bestia, non più cieca di rabbia e paura, viene così guidata dalla dolce ma ferma Ragione attraverso un percorso di consapevole perfezionamento, consentendomi di arrivare ad attuare la mia Volontà Vera. E' un percorso, questo, tutt'altro che semplice e immediato, che Crowley ha pienamente sviluppato nel suo sistema del Thelema.
Il secondo, importante passo che dovremo intraprendere - in contemporanea al primo, naturalmente, altrimenti vanificheremmo molti dei nostri sforzi - è rigettare in modo risoluto ed irrevocabile la mistica e la metafisica fini a se stesse, quelle che fanno riferimento a un fantomatico "ente assoluto" (Sein), per andare invece a conoscere la Realtà in Atto (Da-Sein, Esser-ci) con gli strumenti della razionalità e della scienza, conferendole piena legittimità gnoseologica. La realtà vera è molteplice, relativa, in continuo divenire. Nessuno dei suoi punti può essere preso a riferimento assoluto; ogni “cosa” reale esiste solo in quanto è in relazione con altre.
Per comprendere correttamente questi concetti senza correre il concreto rischio di travisarli, è fondamentale avere appreso almeno le nozioni di base dell'analisi matematica e della fisica relativistica. Non si tratta certamente di studi che si possano esaurire con poche ore di ricerche sul web o con la visione di qualche video, seppur quelli di alcuni youtuber fisici e matematici siano di indubbia validità. Il consiglio migliore è quello di procurarsi qualche testo di matematica e fisica per i licei e... leggerli (e magari provare a risolvere qualcuno degli esercizi proposti, che male non fa).
Così, con gli strumenti efficaci della scienza, e illuminati dalla filosofia che si invita ad approfondire almeno per quanto riguarda i pensatori sopra citati, riusciremo infine a cominciare a prendere il controllo della nostra esistenza, restando comunque in comunicazione con il nostro istinto - la Bestia - e mantenendo centrata la nostra azione sulla attrazione verso la vita, che è il primo e più saldo degli istinti, non considerandolo più maligno e disdicevole (come impongono le religioni e le filosofie basate sulla cultura della schiavitù) ma comprendendo che tale istinto è il vero e solo Motore Primo dell’esistenza di ciascuno di noi.
Decalogo Minimo
Premesso che il concetto di autodeificazione sintetizzato dalla frase "io sono il dio di me stesso" si traduce come "io sono il mio proprio punto di riferimento materiale e morale e il solo artefice del mio destino", le condizioni e le azioni minime necessarie per perseguire praticamente un tale risultato si possono riassumere in questi dieci punti:
Auto-sufficienza: io devo bastare a me stesso, non dipendendo da altri se non nell'ambito di un sano scambio di competenze do ut des. Devo comprendere che ogni altro rapporto di forze sbilanciato risulterà alla lunga dannoso non solo per l'altro, ma anche per me stesso. Gli altri non sono stupidi: fai una mossa falsa, e ti sarai fatto terra bruciata intorno, forse per sempre.
Auto-gestione: io devo essere capace di organizzare la mia esistenza, devo esser capace di comprendere cosa mi serve e qual è il modo migliore per ottenerlo. Devo anche capire che spesso "migliore" non corrisponde a "più veloce" o "più economico" o "più remunerativo". Devo sempre sforzarmi di vedere il più lontano possibile nell'orizzonte spaziale e temporale.
Auto-valutazione: io devo essere in grado di valutare le mie capacità e i miei limiti, imparando a trarre profitto dai miei punti di forza e proteggendo le mie vulnerabilità. Devo inoltre tener presente che posso sempre lavorare per rafforzare i punti deboli, limare le asperità, e in generale per migliorare le mie capacità fisiche e mentali. Si tratta sempre di percorsi lunghi e articolati che richiedono costanza nella loro attuazione, ma che possono portare a risultati sorprendenti.
Auto-consapevolezza: io devo essere capace di capire dove sono, chi sono, e come mi sto relazionando con il mondo, apportando ove necessario le "correzioni di rotta" che mi mantengano centrato su me stesso e sulla mia reale volontà. Devo comunque lasciarmi aperta la possibilità di ridefinire nel tempo i miei obiettivi: difficilmente infatti so da subito qual è la mia "volontà vera", spesso non basta una vita intera per capirlo! L'importante è non arrivare mai a darsi per scontati.
Auto-edificazione: io devo essere capace di costruire le parti della mia personalità e le competenze che mi consentiranno di farmi artefice della mia propria fortuna. Questo significa che devo essere pronto a continuare a studiare ed informarmi per tutta la vita. Significa anche che devo saper rimettere in discussione la mia posizione professionale e sociale quando sia il caso. Sapermi rimettere in gioco deve essere sempre una opzione alla mia portata.
Auto-collocazione: dalla cerchia delle amicizie alla posizione lavorativa, io devo lavorare costantemente per selezionare i migliori elementi da inserire e mantenere nella mia rete sociale, attuando una spietata selezione dei contatti produttivi, scartando quelli improduttivi o addirittura dannosi. Se sono preda di dubbi o titubanze, mi basterà pensare che quasi sicuramente l'altro, a posizioni invertite, non esiterebbe un istante a fare la sua scelta del tutto legittimamente egoista.
Auto-responsabilizzazione: io devo essere capace di portare sulle mie spalle il fardello delle mie responsabilità, senza delegare le decisioni importanti sulla mia vita all'arbitrio altrui, e trattenendomi dalla tentazione di scaricare su dei facili capri espiatori ciò che dovrebbe gravare interamente sulla mia coscienza.
Auto-disciplina: io devo sapermi imporre oggi ciò che so costituire la base per il mio bene domani. Questo non significa fustigarmi quando faccio un errore o cingermi col cilicio per ricordarmi che sono fallibile; né significa impormi ristrettezze e sacrifici non necessari; ma devo avere piena e costante consapevolezza che l'ignoranza si paga, e che la pigrizia si paga, quella fisica come quella mentale. Non devo cedere alla tentazione sempre presente di darmi delle scuse per i miei errori. Devo accoglierli, farne tesoro, ed andare avanti. Devo, insomma, imparare a perdonare me stesso.
Auto-riconoscimento: io devo saper riconoscere e saper far riconoscere i miei meriti; e devo parimenti saper riconoscere ed onorare i meriti altrui. Questo significa che devo saper essere riconoscente verso gli altri, e devo saper accogliere la riconoscenza degli altri verso di me. Devo assumermi piena responsabilità della mia vita e delle mie azioni verso me stesso, verso le altre persone, e verso il mondo, di cui faccio innegabilmente e indissolubilmente parte.
Auto-determinazione: io sono il mio solo e unico dio, legislatore artefice e giudice del bene e del male che faccio a me stesso e al mondo intero.
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